martedì 22 marzo 2011

La mia Maratona (parole, foto e persino dei video)

Non so da dove cominciare, davvero.

Fino a ieri per me la Maratona era questa:
La curva Maratona, quella del mio Toro, in cui ho speso le migliori (3, forse 4) e le peggiori (tutte le altre) domeniche della mia vita da 15 anni a questa parte.
Dopo aver abbondantemente sofferto in quella Maratona, ho deciso, per assonanza emotiva, che era il caso di andare a spremere un po' di dolore anche in quell'altra, quella dove si corre invece di saltare, dove si ansima invece di bestemmiare, dove non ti puoi incazzare se uno di quelli in campo non sputa l'anima, perché stavolta l'anima da sputare è la tua.

Come tifoso granata ero predisposto al sacrificio, insomma.
Come runner anche, avevo fatto le cose per bene con un serio allenamento di quattro mesi alle spalle.
Come bambino cresciuto a Roma e come adulto innamoratissimo di quella città non potevo scegliere meglio la location per il primo tentativo.
Come compagno non potevo chiedere di più, c'era il mio amico Charlie.
Come compagna nemmeno, giusto Bionda?


Correre a Roma libera molto più che semplice sudore, dice questa pubblicità fotografata in metropolitana.
Già, molto di più.
Mai nella mia vita mi ero preparato per quattro mesi focalizzandomi su un solo evento. Forse solo per la tesi di laurea. Quindi immaginatevi quanta roba avevo addosso, nella testa, nella pancia, nelle gambe. Voglia, carica, tensione, paura, emozione, competitività, stanchezza, esaltazione.
Roma amplifica tutto. L'eco emozionale tra i suoi monumenti è spaventosa, ogni desiderio rimbomba, ogni passo è Storia. Ieri è stata la mia storia. La mia prima maratona.
Permettetemi di raccontarvela. Mi dilungherò il meno possibile, ma un po' sarà necessario...

Sabato: il peggior incubo per un romano d'adozione come me è non potersi abbuffare in trattoria quando si torna a Roma. L'incubo è più orribile se hai l'albergo a due passi da Testaccio e se la tua ragazza, seduta di fronte a te, mangia come una autotrasportatore texano che abbia appena attraversato il deserto senza trovare un Autogrill aperto.
Pranzo e cena in due osterie veraci ed entrambe le volte mi sono limitato ad un primo (per carità, gricia e pajata, mica sono COSI' stupido...). E basta. Beh, alla sera un bicchiere di vino l'ho bevuto...
Nel pomeriggio abbiamo incontrato Carlo al ritiro pettorali, ecco il primo abbraccio tra i runner:

Lì, ho capito una prima cosa. Il vero maratoneta entra nel mood da corsa non qualche ora prima. Lo fa giorni prima. E lo fa partendo dai dettagli: io e Carlo eravamo praticamente gli unici con i jeans e i vestiti urbani. Gli altri erano tutti in tuta e scarpe da corsa. La versione podistica dell'abito buono della domenica, l'unico degno di essere indossato per entrare nello spirito del sacro weekend della maratona.
Charlie, ne abbiamo ancora di strada da fare.
Non mi sono però fatto mancare una firma sul Wall of Fame della gara, come se fossi anch'io uno di quelli veri:
Poi con Charlie e la Bionda siamo andati ad annusare il terreno di gara, così, tanto per capire che aria tirava e avere più tempo per assorbire l'impatto della maestosità del luogo di partenza:
A destra, fuori dal campo della foto, c'era il Mostro. Voi non potete vederlo e nemmeno io me ne sono accorto in quel momento. Fregato dalla maestosità, non mi sono accorto che era un altro l'urto a cui avrei dovuto prepararmi. Ma ne parleremo dopo.

Domenica, il pre gara: sveglia alle 6.45, dressage (so che ha a che fare con i cavalli, ma a me è sempre sembrato anche un modo elegante per dire che mi sono vestito di tutto punto) e spalmage di cremine. Assunzione di pastiglie, gel e frugale colazione. Uscita dall'albergo.
Una delle cose che amo di più delle gare di corsa è l'uscita mattutina per recarsi al luogo della gara. Domenica, la città dorme, la luce è inconsueta e le uniche figure che vedi sono runner (e proprietari insonni di cani insonni). Anche questo scenario, bello ovunque, a Roma è ancora più spettacolare. Scendere dall'Aventino, dove avevo l'albergo, ritrovarsi davanti le rovine del Palatino, attraversare il Circo Massimo immaginandolo pieno di bighe (no, non fate i maliziosi, non è un errore di battitura, è un fatto storico..), girare l'angolo di Via San Gregorio e passare all'improvviso da una città fantasma ad un suk fatto di migliaia di esseri umani che si scaldano, fanno stretching, si cambiano, pisciano (sì, anche questo è running: la gente prima e durante le gare piscia ovunque), scherzano, chiacchierano in trenta, quaranta lingue e dialetti diversi, si travestono (ho visto puffi, centurioni, parrucche di ogni tipo, passeggini, tute da imbianchino..), scherzano o cercano disperatamente la concentrazione come un ago in un pagliaio di emozioni, odori e rumori.
Alle nove meno un quarto ci infiliamo nelle gabbie di partenza. Come vi raccontai al tempo, visto che gli organizzatori e i top runners ci temevano tantissimo, a me e Carlo sono stati affibbiati due pettorali altissimi e siamo costretti a partire dal fondo. Volete sapere quale è la cosa più umiliante, seriamente? Le gabbie erano denominate per numero di pettorali. La nostra, oltre a essere quella "dal 7000 in poi" riportava una scritta in appendice " e fitwalking". Cioè, non solo i runners, già quelli più scarsi, ma pure gli anziani che camminano, le signore che fanno i corsi in palestra o quel cavolo che significa "fitwalking". Sicuramente non significa runners, ma qualche specie meno evoluta nella catena alimentare del podismo.
E vabbè, gliela faremo pagare.
Ci posizioniamo nel magma umano e dal nostro punto la partenza non si vede nemmeno, è dietro una curva.
Tanto meno si sente lo sparo, semplicemente a un certo punto il millepiedi, di cui noi rappresentiamo quattro orgogliose zampette pelose, inizia lentamente a muoversi, gli orologi segnano le nove e noi due, che siamo entrambi laureati, sintetizziamo queste due informazioni e traiamo la deduzione che la gara sia cominciata.

Domenica, la gara: partiamo insieme, io e Charlie. Il primo tratto è tutto uno schivare le persone, infilarsi nei pertugi, guadagnare metri, dare e prendere gomitate, sventare sgambetti involontari. Il millepiedi è spietato, denso, compatto. 16.000 persone e si sentono tutte. Avevamo deciso che l'avei accompagnato fino a raggiungere i pacers delle 4h30', poi ognuno per la sua strada. Ci arriviamo, ce n'è più di uno e lui sceglie l'unica carina.Beh, giusto, servono stimoli in una gara così faticosa. Ci salutiamo.
Dopo 500 metri me lo ritrovo accanto.
"Carlo?"
" Ciao Cri".
Niente, la sua anarchia innata gli ha impedito di tenere il passo dei pacers, troppo razionale ed organizzata come tipo di corsa (P.S. aveva passato la sera prima a messaggiarmi ragionando su quale pacer seguire e sembrava molto entusiasta della cosa).
Facciamo insieme un altro chilometro, poi ci salutiamo. Questa volta davvero.
Dopo il quinto chilometro la folla inizia un po' a diradarsi, anche se rimarrà piuttosto fitta fino alla fine. E inizia il godimento. Fino al traguardo della mezza maratona è estasi pura, ve lo giuro. Non mi sono nemmeno accorto che stavo correndo. Mi perdo nella città, nei quartieri che attraversiamo, negli angoli che conosco e amo, negli incitamenti della gente (pubblico splendido, per inciso, le gare del Nord se lo sognano un contesto umano così caldo, che ti applaude e ti incita in continuazione), nella naturalità del gesto di correre che mi riesce alla perfezione. Leggero, esaltato, estasiato.
Torno sulla terra solo attorno al 12esimo km, punto prestabilito di incontro con la Bionda. ci vediamo da lontano. Lei mi fotografa, io mi fermo a baciarla. Me lo merito io, se lo merita lei.
Corro con facilità a tempi più bassi di quel che avrei sperato. Errore di gioventù, lo so. Lo pagherò. Seguo per un po'un giapponese avvolto nella sua bandiera, su cui ha scritto a mano "Thanks World". Vedo sulle magliette di due ragazzi il nome di un gruppo podistico e penso sia l'unico al mondo più bello del nostro Piovono Runners: The sole destroyers, i distruttori di suole. Vivo un arrivo frontale a San Pietro che fa venire i brividi. Attraverso Piazza Mazzini, dove andavo a giocare da bambino. Supero la Mezza Maratona sulle ali dell'entusiasmo. Inizia poi la parte meno bella del percorso, a Roma Nord, compreso un passaggio sulla tangenziale. Allietato però da un incredibile gruppo di tifosi canadesi che incitano i runner. Ma con tutti i posti favolosi di Roma, perchè questi si sono messi a fare il tifo in tangenziale? Numeri uno. Incrocio lo sguardo afflitto di un benzinaio annoiato: la corsia servita dal suo distributore oggi è riservata ai runners, niente macchine. Non so perchè lui sia lì, la sua presenza è più misteriosa di quella dei canadesi. Forse nessuno glielo aveva detto.
Torniamo verso la città e riprendiamo il lungotevere. Siamo vicini al trentesimo km ma le gambe reggono e i tempi al km non si alzano. Today is the day, lo sento. A un certo punto entriamo in un lungo sottopasso buio, quei posti in cui se sei in crisi ti sembra di calare all'inferno e che non ne uscirai mai più. Io invece lo supero in scioltezza e riemergo nel sole da vincitore. Ecco l'Ara Pacis, siamo in centro. Le gambe si induriscono, ma la testa c'è ancora. Siamo attorno al 33esimo e si punta verso Piazza Navona, stracolma di gente. Inizio ad accorgermi che la mia concentrazione si sta progressivamente spostando dal contesto che mi circonda al semplice atto di correre, di mettere un piede davanti all'altro. E' il momento dell'introversione, preludio di tempi difficili. Mi tengo lucido, al 35esimo km c'è il secondo incontro con la Bionda. Anche qui la folla è abbondante e da lontano la vedo che si fa spazio per arrivare in prima fila, macchina fotografica in mano, come un paparazzo assediato dai colleghi sul tappeto rosso di Cannes.

Questa volta niente baci e anche il sorriso è più stentato. Quando apro la bocca per dirle "Non mi fermo, se no non riparto più", mi accorgo di due cose. Innanzitutto di quello che le ho appena detto e che fino ad allora non avevo ammesso nemmeno a me stesso. E poi di come l'ho detto: voce rotta, metà dalla fatica e metà dalla commozione. Davvero. In quel momento sono stato investito da tutto: dalla fatica e dall'emozione per quello che stavo facendo, dai brividi di paura di non farcela e da quelli, più forti, di orgoglio. Esistono i brividi di orgoglio? Ed esistono tanto forti da farti quasi piangere? Non lo so, ma ho avuto tanto l'impressione che fossero soprattutto quelli a percuotermi in quel momento.
E poi arriva.
Al 36°km, eccola. La Crisi.
Non quella di cui avevo fantasticato durante la preparazione. Quella vera, quella che ti inchioda a terra, che interrompe la comunicazione tra il cervello e i muscoli, spietata.
Che poi si manifesti lì, davanti a Palazzo Grazioli è un fatto. Un fatto su cui è facile ironizzare, lo ammetto. Io ve lo riporto, traetene voi le conclusioni.
Mi limito alla cronaca. La cronaca dice che da lì in avanti sarà sofferenza pura. Mi inchiodo. Cammino fino all'imbocco di via del Corso. Lì provo a ricominciare a correre, sfidando le limitate energie rimaste. La strada si stringe, o sono io che la vedo stringersi, chissà, tra due ali di folla che applaude e ti si riversa addosso, come in quelle tappe cruciali di montagna del Giro d'Italia. Io ho addosso la maglia rosa, so di cosa sto parlando. Li sento addosso, gli spettatori, con un misto di fastidio e piacere. A metà della via, infinita, mi inchiodo di nuovo. Cammino un po' poi ricomincio a correre. E' diventata una gara tra relitti umani: molti mi superano, poi dopo alcuni metri si arrendono anche loro alla stanchezza e sono io a superare loro. C'è gente a terra distrutta, con turisti che si improvvisano massaggiatori e li aiutano a piegare le gambe, per superare i crampi. Arrivo a Piazza del Popolo e la faccio tutta camminando, con la gente che mi urla che è quasi fatta, che è finita, che non devo mollare. IO sono quasi finito, vorrei rispondere. Ma sono TROPPO finito, per rispondere. Riprendo a correre e attraverso Piazza di Spagna. Ma potrebbe essere anche la circonvallazione di Città del Messico, per quanto mi riguarda. La mia visuale si è ridotta al minimo necessario per la sopravvivenza: mi guardo i piedi e li prego di tenere duro ancora un po'. Arranco verso la Fontana di Trevi, aiutato da una leggera discesa. Del passaggio alla Fontana non ricordo niente, giuro. Solo oppressione e fatica. Entrando in Piazza Venezia infilo il piede tra due sanpietrini, sto cadendo rovinosamente e mi aggrappo a un tipo accanto a me per non rovinare a terra. Lui non la prende benissimo, mi guarda torvo ma chissenfrega: sono salvo. Ormai è pura sopravvivenza.
Segue un lungo blackout. E vi garantisco che non sto romanzando. Il mio ricordo successivo inquadra il gonfiabile che indica l'ultimo chilometro. Non riesco a essere felice di vederlo. Semplicemente registro l'informazione. Anche perchè lì dietro si nasconde il Mostro. Ve ne parlavo qualche paragrafo più in su. Il Mostro è un'interminabile curva parabolica in salita che gira attorno al Colosseo messa lì, da qualche crudele architetto urbanista, nell'ultimo chilometro della Maratona. Mi fermo di nuovo, cammino, esausto. Mi sembra infinita. Ma tutto ha una fine nella vita, grazie a Dio. Dietro al Mostro si nasconde la cosa più bella del mondo. Una morbida, amichevole discesa che porta verso l'arrivo. Ricomincio a correre, spinto non certo dalle mie forze ma da qualcos'altro che non ha nome. C'è il cartello dei 42. Ma ci sono da fare anche gli ultimi 195 metri. Sono più lunghi dei 580 e passa chilometri che ho corso per prepararmi a questa gara.
Ma finiscono anche questi. E arrivo.
Passo il traguardo.
E' irreale, profondamente irreale.
Ce l'ho fatta.
Una signora mi sorride e mi mette la medaglia al collo. Vorrei abbracciarla e piangere, a lungo, sulla sua spalla. Mi trattengo, per fortuna.
Altri mi si avvicinano. Mi avvolgono in un telo termico per riscaldarmi, mi tolgono il chip dal pettorale, mi piazzano in braccio una sacca contenente gatorade, acqua e una mela.
E' bellissimo avere tutte queste persone che pensano al posto tuo e ti manovrano in un momento in cui tu riesci a malapena a ricordarti chi sei.
Riprendo conoscenza. Riprendo la mia sacca. Riprendo il telefonino. Chiamo la Bionda e ci incontriamo. Era lì, non lontano da me che con lo sguardo l'avevo cercata a lungo. Peccato che il mio sguardo, già da sei chilometri a questa parte, avesse perso la sua funzione, come la maggior parte delle altre parti del mio corpo.
Mi fotografa, la Bionda.
E quelle che seguono sono le immagini di uno che ce l'ha fatta.



Qui invece ci sono i video della mia gara, dal menu in alto a sinistra potete selezionare i punti del percorso e guardarmi passare:

2 commenti:

  1. Nella foto al 32esimo sei ben a fuoco, nella prima andavi troppo veloce :)

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  2. bravo, complimenti... cazzo che emozione!

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