Ci sono svariati modi per affermare la proprio individualità all'interno di un gruppo sociale.
Io ne ho scelti alcuni particolarmente antipatici.
Non mi piace il cioccolato. Il che mi taglia fuori dal 75% delle torte di compleanno e dal 100% delle pasque.
Non bevo caffè. Il che mi esclude dalle confidenze da ufficio, quelle che si dicono solo davanti alla macchinetta, al mattino. Rende terribilmente noiosi, questa cosa:
"Andiamo a prenderci un caffè?"
"Non lo bevo"
"Allora fottiti"
(quest'ultima battuta, fortunatamente, è quasi sempre solo pensata dal mio interlocutore).
Sono anche stato l'unico ad essere felice quando hanno inventato la Redbull
(quasi tutti gli altri se ne sono accorti solo quando un alchimista alcolizzato ha pensato di accoppiarla alla vodka).
E poi non galleggio. Sono serio, non so stare a galla. Cioè, nuoto per carità.
Ma non so fare il morto.
Mi hanno spiegato in tanti che è la cosa più naturale del mondo. Che non richiede talento o allenamenti. Che basta stendersi sul pelo dell'acqua e respirare normalmente.
Io ci provo con regolarità. Mi allungo orizzontalmente sul mare e chiudo gli occhi. Assumo forme che vanno dalla stella al crocefisso.
Il tutto di solito dura dai tre ai quattro secondi. Il tempo di ingannare qualsiasi legge fisica da Archimede in avanti.
Poi le mie gambe iniziano ad affondare, lentamente. La schiena si inarca. L'addominale è inutile (anche quando c'era davvero). L'attrazione dell'abisso è irresistibile.
Trascorsi dieci secondi, nei quali di solito ho anche bevuto un paio di sorsate d'acqua salata in un estremo e annaspante tentativo di ribellarmi agli eventi, mi ritrovo verticale come prima, a muovere le gambe sott'acqua per stare a galla.
Gli altri ridono.
Però l'acqua è il mio elemento in un altro senso: quando corro.
Ieri pomeriggio l'ho ritrovata, dopo un'estate assolata e secca. Mi è piombata addosso a metà della mia uscita. Roboante, fradicia, a secchiate. Mentre molti riparavano il più velocemente possibile verso casa o sotto le pensiline degli autobus, io godevo.
Mi piace da morire correre sotto l'acqua. Mischiare il sudore alla pioggia fino a non distinguerli più. Sentire quel senso di piccola epica, l'unica che alla fine possiamo concederci noi podisti dilettanti. Fottersene di come conci i tuoi vestiti, tanto non devi essere presentabile per nessuno e quella roba a casa l'avresti lavata lo stesso. Tenere gli occhi a fessura, quando ne scende veramente tanta e tu non hai neanche una visiera a farti da tettoia. Infilare il piede in una pozzanghera e, per un secondo incazzarsi - è un riflesso incondizionato - ma un attimo dopo capire che non cambia niente, visto che sei già fradicio ovunque.
La pioggia, quella a catinelle come ieri, mi rende libero. Mi porta a quelle situazioni genere "peggio di così" che mi fanno sentire capace di fare tutto, tanto non ho più nulla da perdere.
La pioggia, quella fine e persistente, invece mi rende severo. E' un metronomo della fatica che mi restituisce il senso di quello che DEVO fare anche se le condizioni atmosferiche sono avverse. Mi ha accompagnato tante volte nell'ultimo inverno, quando mi allenavo per la Maratona di Roma. Era la prova inconfutabile che ce la stavo mettendo tutta, perchè uno che avesse potuto scegliere, quella domenica sarebbe rimasto a letto. Io invece la vedevo e uscivo lo stesso. Andavo a farmi schiaffeggiare da lei. Perchè io ero più forte. Perchè io ero più motivato. Perchè il mio sogno di correre la prima Maratona era moralmente impermeabile.
La superficie dell'acqua la lascio a voi che sapete galleggiare.
Io nell'acqua infilo la faccia, sorrido e corro.
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